di Emanuele Murra 

Dopo l’exploit alle urne del M5S l’argomento onnipresente in ogni trasmissione politica è diventato il reddito di cittadinanza, sia nella proposta di legge già definita durante la scorsa legislatura dal movimento, sia nel “rilancio” fatto da Beppe Grillo sul suo blog di un reddito come diritto di nascita. Sebbene entrambe queste proposte si fregino nel linguaggio comune della dicitura “reddito di cittadinanza”, si tratta di misure molto diverse.

Il Reddito di cittadinanza quale reddito di ultima istanza, su cui verte la proposta parlamentare del M5S, non è niente di estremamente nuovo. Si tratta di un potenziamento dell’attuale ReI che, ammettiamolo, è pure una bella idea, ma è sottofinanziato rispetto alle reali necessità e alla diffusione della povertà in Italia; inoltre si rivolge ad una platea assai limitata: le famiglie che presentano un reddito inferiore ai 6000€ annui.

La proposta del Movimento amplia la platea, includendo tutti i nuclei familiari sotto i 7800€, ma per il resto è molto simile: si rivolge ai poveri, quando non siano presenti altre forme di previdenza (come gli assegni di disoccupazione, ad esempio) ed è strettamente connesso ad un obbligo di attivazione, cioè alla ricerca di un lavoro e a un divieto di rifiutare per più di due volte le proposte dei centri per l’impiego.

Niente di rivoluzionario, insomma: esiste dovunque in Europa, in alcuni paesi da oltre un decennio. Ed è stato recepito tra i venti principi del Pilastro Europeo dei Diritti Sociali, una specie di decalogo programmatico per far convergere, in ambito di politiche sociali, tutti i paesi dell’Unione verso un nucleo di buone pratiche condivise. E infondo, sebbene cambi il momento dell’erogazione (prima o dopo la nuova dichiarazione dei redditi), il reddito di dignità paventato da Berlusconi (versione aggiornata della negative tax di Milton Friedman) mette capo ad un meccanismo del tutto simile.

In modo molto diverso, e questa volta sì più radicale, il reddito di cittadinanza come diritto di nascita, conosciuto internazionalmente sotto la dicitura inglese di universal basic income, è l’idea che insieme a fondamentali diritti civili e politici che abbiamo per nascita, indipendentemente da nostri meriti (diritto all’inviolabilità del domicilio, alla sicurezza personale, di eleggere ed essere eletti, ecc.) esista anche un fondamentale diritto sociale per nascita, ed è quello di avere il necessario per vivere una vita non deprivata del necessario. Un minimo di risorse che contribuisca a ridurre il divario economico e ad avvicinare i punti di partenza di tutti i cittadini, a garantire un minimo di indipendenza economica (ai giovani dai genitori, alla moglie dal marito, al lavoratore dal suo datore di lavoro), offrendo un’alternativa a condizioni esistenziali complicate (ad esempio: un figlio che non può andare via di casa e farsi una famiglia perché senza risorse, una moglie che non lascia il marito perché non saprebbe di che vivere, un lavoratore che accetta condizioni di impiego al limite della legalità o peggio) che sia diversa dal patire la fame.

Basta leggere i giornali delle scorse settimane, scorrere sullo schermo del proprio pc qualche blog o rivedere in streaming qualche talk show dei mesi scorsi per notare come di questa “seconda interpretazione” del reddito di cittadinanza non ci sia praticamente traccia, e quando c’è si tratta di riferimenti quantomeno imprecisi, venendo spesso confusa con la prima, assegnando i supposti difetti o pregi di una all’altra (e viceversa). Beppe Grillo, forse vedendo ormai vicino il momento in cui sarà approvata la proposta di legge M5S sul reddito di cittadinanza (alias di ultima istanza), ha introdotto nell’arena politica questa proposta “utopica”, questa versione più radicale di reddito di cittadinanza, riuscendo nuovamente a focalizzare sulle sue parole l’attenzione generale. Tutti, come era da aspettarsi, sono diventanti in un giorno e una notte esperti navigati della proposta e di tutte le sue implicazioni economiche.

In questi giorni i principali leader politici sono tutti lì ad assicurare che loro non vogliono dare soldi ai perdi giorno seduti sul divano a guardare la tv. Dando per scontato, con improprio sillogismo, che questa sia la deduzione logica e necessaria dalle premesse di un reddito concesso in modo incondizionato a tutti e dalla difficoltà (scambiata per poca volontà, chissà perché…) di trovare lavoro.

Qualche anno fa, insieme a Corrado del Bò, ho scritto una breve introduzione al reddito di cittadinanza nella sua versione incondizionata, dando al volume il sottotitolo provocatorio “Perché dare soldi ad Homer Simpson e ad altri fannulloni”. In quel breve opuscolo noi autori cercavamo di spiegare le ragioni, sia di giustizia sociale che di efficienza del sistema economico, per cui una politica sociale universale e incondizionata come il reddito di base risulti preferibile agli attuali sistemi di welfare condizionato. Non mi è possibile qui richiamarle tutte, ma è bene però, visto il dibattito di questi giorni, chiarire il rapporto reddito / lavoro sul quale si insiste di più.

Pensare che le politiche a sostegno del reddito e quelle a sostegno del lavoro siano contraddittorie è un errore dovuto alla confusione dei piani, e alle molte funzioni che nei decenni scorsi sono state delegate al lavoro salariato.

Fino a qualche decennio fa la funzione del lavoro salariato era quantomeno triplice. Innanzitutto, ripagava del proprio tempo impiegato a produrre oggetti o servizi. Ancora, un posto di lavoro garantiva integrazione sociale e allontanava il rischio di esclusione e destituzione. Inoltre, grazie ad alcuni automatismi salariali, ad una importante progressività delle imposte (e anche a pensioni calcolate sulla retribuzione) era un sistema che permetteva di redistribuire almeno parte della ricchezza prodotta, mantenendo in un range limitato il divario tra ricchi e poveri.

Questa triplice funzione è ormai saltata. In primo luogo, il lavoro non redistribuisce più la ricchezza, o almeno non lo fa a sufficienza. La progressività attuale delle imposte non è paragonabile a quella di qualche decennio fa. Tutte le statistiche a nostra disposizione dimostrano una polarizzazione della ricchezza, e anche durante la crisi, il primo decile di reddito, male che sia andata, non ha migliorato il suo tenore di vita, ma raramente lo ha peggiorato. Mentre, al contrario, è in aumento il fenomeno dei working poors, dei lavoratori che, nonostante un posto di lavoro, magari anche stabile, sempre meno riescono a far fronte alla quotidianità, così che un semplice imprevisto li può far pericolosamente scivolare verso la povertà più nera.

Lo stipendio o il salario non sono ormai neanche proporzionali al tempo di lavoro, perché praticamente tutta la giornata è messa a lavoro. I posti di lavoro oggi più comuni non propongono quasi mai forme di lavoro ripetitivo, che si può racchiudere nelle 8 ore che si passano all’interno delle mura di una fabbrica o di un ufficio. Ci è richiesta propositività, intuizione, creatività, progettualità, tutte qualità che hanno le loro radici e si possono sviluppare solo al di fuori dei tempi di lavoro (e dunque delle ore effettivamente pagate). Ancora, basta solo visitare una pagina web, o utilizzare un social per produrre informazioni dall’alto valore economico per le quali non siamo remunerati in alcun modo.

Se poi parliamo di integrazione tramite il lavoro, c’è da chiedersi quanto essa possa riuscire nell’economia della flessibilità odierna. Per parlare di integrazione bisogna oggi guardare non solo al lavoro salariato, ma anche e soprattuto ai progetti sociali garantiti dai fondi europei, ai grandi progetti cooperativi ed open source, al mondo del terzo settore, del volontariato, dell’associazionismo, molto più centrali rispetto al passato e grandi catalizzatori di integrazione sociale e di sviluppo, sia umano sia dei territori nei quali si opera.

Se vogliamo davvero essere preparati ai tempi nuovi che sono già tutti pienamente annunciati nelle forme assunte dall’economia contemporanea, dobbiamo prendere atto del presente e del possibile futuro. Dobbiamo renderci conto che è necessario trovare diverse forme di distribuzione della ricchezza che non passino dal salario/stipendio; dobbiamo renderci conto che non è detto si possa raggiungere la piena occupazione (se mai, storicamente parlando, si possa dire che essa sia stata davvero raggiunta); e che il lavoro è, già oggi, solo una delle molte forme in cui si attua l’integrazione sociale.

Si può non essere d’accordo sul fatto che garantire a tutti un reddito in modo universale e incondizionato sia la soluzione. Ma è una proposta che va studiata, analizzata e discussa, di cui si dovrebbero, dati alla mano, dimostrare pregi e difetti e non da bollare con facili slogan denigratori.

In Finlandia si sta sperimentalmente offrendo agli abitanti di alcune città un reddito incondizionato in sostituzione dei tradizionali assegni di disoccupazione o sociali. I primi risultati raccolti non ci parlano di città piene di fannulloni seduti davanti alla tv, ma persone che, vedendo allontanarsi lo spettro della povertà, hanno recuperato sicurezza e  stima in se stesse, ridotto i livelli di ansia, si sono impegnate a migliorare la propria formazione, hanno cercato (e a volte trovato) lavoro o si sono impegnate in progetti sociali.

In Alaska, sin dai primi anni ’80, parte dei proventi del petrolio sono distribuiti incondizionatamente, in forma di un dividendo annuo, tra tutti i cittadini americani residenti nello stato, e questo ha reso negli ultimi trent’anni l’Alaska lo stato più egualitario degli USA. Qualche anno fa l’UNICEF ha finanziato un progetto di reddito incondizionato in India, con importantissimi risultati (riduzione della malnutrizione infantile e dell’abbandono scolastico, maggiore attivismo economico delle donne, ecc.).

Per chi come me fa ricerca da anni sui diritti sociali, e in particolare su questa misura di universal basic income, è davvero positivo sentir finalmente parlare un po’ tutti di questa proposta  che solo qualche anno fa era conosciuta da una relativamente circoscritta cerchia di persone. Ma sarebbe ancora più soddisfacente sentirne parlare con un po’ più di competenza.

Per saperne di più: 

Philippe Van Parijs, Yannick Vanderborght, “Il reddito di base. Una proposta radicale”, il Mulino 2017

Sandro Gobetti, Luca Santini, “Il reddito di base. Tutto il mondo ne parla”, GoWare 2018

Stefano Toso, “Reddito di cittadinanza. O reddito minimo?”, Il Mulino 2016

Corrado Del Bò, Emanuele Murra, “Per un Reddito di cittadinanza. Perché dare soldi a Homer Simpson e ad altri fannulloni”, GoWare 2014

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