Le recenti strategie messe in atto dalla BCE per stabilizzare l’euro, come anche le nuove richieste provenienti dalle “periferie” europee per politiche economiche oltre l’austerità, rendono attuale più che mai la domanda circa i cambiamenti necessari affinché l’unione monetaria ritorni a essere un elemento di integrazione e non rappresenti, come è ormai nell’immaginario di molti, un gioco in cui in pochi ci hanno guadagnato ed in molti perso.

Confrontando le caratteristiche dell’Eurozona con l’unione monetaria statunitense basata sul dollaro, Philippe Van Parijs ha proposto una strategia da lui stesso definita “quasi-americana” per la moneta unica europea. Una strategia che richiede un incremento significativo dei trasferimenti compensativi tra gli stati europei. La sua proposta consiste in un eurodividendo da distribuire periodicamente a ciascun residente europeo e finanziato attraverso una quota dell’imposta sul valore aggiunto.

Le sue tesi sono estesamente descritte in un articolo comparso nel 2012 sul quarto volume del Green European Journal dal titolo “A Quasi-American Strategy for European Egalitarian”.

Di seguito proponiamo la traduzione di un articolo, con il consenso dell’ autore, che presenta in sintesi le stesse idee ed originariamente apparso nel 2013 sul blog della prestigiosa London School of Economics and Political Science

 

Un Eurodividendo. Perché l’UE dovrebbe introdurre un reddito di base per tutti
di Philippe Van Parijs

Criticare è facile, proporre è più impegnativo. Qui di seguito farò una proposta semplice e radicale ma nel contempo ragionevole ed urgente, come spero di mostrare. Una proposta che chiamerò eurodividendo. Si tratta di versare un modesto reddito di base ad ogni persona legalmente residente nell’Unione Europea oppure ai residenti di quel sottogruppo di stati membri che ha adottato la moneta comune o si sono impegnati a farlo presto. Questo reddito fornirebbe in modo universale ed incondizionato ad ogni persona un livello economico minimo che sarebbe possibile integrare liberamente con altri redditi da lavoro e da capitale, nonché da altre prestazioni sociali. Il suo importo potrebbe variare da Paese a Paese tenendo conto del diverso costo della vita e può essere minore per i giovani e maggiore per gli anziani. Esso potrebbe essere finanziato dall’imposta sul valore aggiunto. Un eurodividendo di circa 200 euro al mese per tutti i residenti dell’UE richiederebbe l’aumento del 20% circa della base armonizzata dell’IVA corrispondente a circa il 10% del PIL europeo. Perché l’Europa ha bisogno di dotarsi di un modello così inedito? Le ragioni principali sono quattro.

La prima e più urgente riguarda la crisi dell’Eurozona. Dovremmo chiederci come hanno fatto gli USA, nonostante i cinquanta stati federati e le loro economie dai destini divergenti, a gestire la loro unità monetaria mentre l’Eurozona è in profonda crisi dopo appena un decennio. Da Milton Friedman ad Amartya Sen, gli economisti hanno insistito nel metterci in guardia sul fatto che l’Europa è priva di due meccanismi di compensazione che negli Stati Uniti sostituiscono efficacemente la correzione attraverso una variazione dei tassi di cambio altrimenti possibile in presenza di divise monetarie differenti.

Il primo elemento di compensazione è la migrazione interna. In qualunque periodo dato, la quantità di persone che si trasferisce da uno stato ad un altro è, negli Stati Uniti, sei volte superiore a quella dei trasferimenti tra gli stati europei. Certamente si può chiedere ai cittadini europei di essere disposti a muoversi di più. Ma anche se così fosse, le nostre nette differenze linguistiche pongono pesanti limiti circa ciò che possiamo aspettarci – o sperare – dalla promozione di una maggiore mobilità lavorativa. Per un disoccupato di Atene spostarsi a Monaco non sarà mai tanto facile quanto per uno di Detroit spostarsi ad Austin.

Un secondo potente meccanismo di assorbimento degli squilibri economici presente nell’area del dollaro è il sistema automatico di trasferimenti interstatali, dovuto principalmente al funzionamento dei servizi sociali finanziati dallo stato federale. Anche quando il Michigan o il Missouri incontrano difficoltà economiche, questi stati non entrano in una spirale negativa. A garantirlo non è solo l’attenuazione del tasso di disoccupazione dovuto all’emigrazione in altri stati. In presenza di una riduzione del prelievo fiscale dovuto alla diminuzione delle attività economiche e a una maggiore richiesta di prestazioni welfaristiche, una quota crescente delle spese sociali è de facto finanziata dal resto degli USA. A seconda della metodologia usata, le stime di questa compensazione automatica variano fra il 20% e il 40% del PIL. Nell’Unione europea, invece, la possibilità di rettifiche tramite trasferimenti netti tra gli stati per attenuare un’eventuale crisi economica è inferiore all’1%.

Dati i limiti prevedibili dei movimenti migratori tra gli stati europei, l’Eurozona non può permettersi di trascurare questo secondo meccanismo. Quale forma dovrebbero assumere in Europa questi trasferimenti interstatali? Non è prevedibile, né sarebbe auspicabile, un mega stato sociale europeo. Ciò di cui abbiamo bisogno è qualcosa di più modesto, più semplice, basato su pagamenti forfettari e compatibile con il principio europeo della sussidiarietà. Per sopravvivere la nostra unione monetaria deve dotarsi di nuovi strumenti. Uno di questi è un meccanismo di compensazione che non può che essere simile a quanto qui propongo come eurodividendo.

Il secondo motivo per cui abbiamo bisogno di un meccanismo di trasferimento transnazionale riguarda non tanto i singoli stati ma l’Unione Europea nel suo complesso. Le diversità linguistiche e culturali del continente europeo non solo comportano per il singolo migrante un costo esistenziale molto alto, rendendo il trasferimento da uno stato ad un altro poco conveniente, ma riduce anche i benefici – e aumenta i costi – per le comunità coinvolte. In paragone alle migrazioni all’interno degli Stati Uniti, l’integrazione dei migranti europei nel nuovo contestoeconomico e sociale richiede più tempo, comporta maggiori risorse educative ed amministrative, crea tensioni tra vecchi e nuovi residenti più profonde e durature. In Europa, quando i migranti degli stati più poveri affluiscono nelle aree metropolitane più ricche, l’impressione di essere invasi da masse difficili da gestire alimenta l’istinto a ristabilire più solide barriere e a rifiutare i principi della libera circolazione e della non-discriminazione. Un’alternativa però esiste, ed è l’organizzazione di trasferimenti economici sistematici dal centro alla periferia. In questo modo non sarà più necessario che le persone, per il mero bisogno di sopravvivenza, si separino dai loro parenti e dalle loro comunità. Al contrario, le comunità diverranno più stabili con il doppio effetto di rendere gestibile l’immigrazione nelle aree di maggiore attrazione e non deprimere, a causa dell’eccessiva emigrazione, le aree più periferiche. Per rendere politicamente accettabile e socioeconomicamente efficiente il principio della libera circolazione delle persone, l’Unione europea deve introdurre una misura sulla falsariga dell’eurodividendo qui proposto.

Il terzo e più importante motivo: la libera circolazione dei capitali, delle persone, dei beni e servizi attraverso i confini degli stati membri erode la capacità di ciascuno di tali Stati di realizzare quelle funzioni redistributive che hanno svolto con discreto successo nel passato. Gli stati membri non sono più stati sovrani capaci di stabilire democraticamente le proprie priorità e di consolidare i vincoli di solidarietà fra i propri cittadini. Sono invece sempre più costretti ad agire come se fossero aziende, ossessionati dalla competitività, ansiosi di attrarre o di mantenere i propri capitali e le proprie risorse umane, pronti a eliminare ogni spesa sociale che non possa esser fatta passare come investimento e a escludere ogni progetto che possa attrarre “turisti dello stato sociale” ed altri soggetti improduttivi. Non è più la democrazia che impone le sue regole ai mercati e li usa per i propri scopi. È il mercato che impone le sue leggi alle democrazie e richiede di dare la più alta priorità alla competitività. Se vogliamo salvare i nostri diversi modi di organizzazione della solidarietà dalla stretta della competizione sociale e fiscale, parte di essa deve essere trasferita a un livello più alto. Il potere e la diversità dei nostri sistemi di protezione sociale non sopravviveranno alla morsa letale della competitività, a meno che il mercato unico europeo non operi sulla base di una misura come quella di un eurodividendo.

Infine, è importante per il buon funzionamento dell’Unione Europea che le sue decisioni siano considerate legittime, così che governi e cittadini non si sentano giustificati ad aggirarle in ogni modo possibile. Un fattore essenziale perché ciò accada è legato alla possibilità che i cittadini sentano che l’Unione lavora per tutti e non soltanto per le élite, per chi può spostarsi, per coloro che sono nella giusta posizione per sfruttare ogni nuova opportunità, ma anche per i più deboli, per gli emarginati, per quanti restano indietro. Bismarck sostenne la fragile legittimità della Germania da poco unita istituendo il primo sistema pensionistico pubblico. Se l’Unione Europea vuole essere per i suoi cittadini qualcosa di più di una burocrazia senza cuore, se vuole essere percepita come un’Europa che si preoccupa dei suoi abitanti e nella quale i cittadini possano identificarsi, allora occorrerà introdurre un qualche elemento completamente nuovo: un eurodividiendo universale.

Ci sono obiezioni ragionevoli a questa proposta? Naturalmente si. Alcune riguardano, per esempio, l’opportunità di usare l’IVA per finanziare questo progetto.
Pur essendo vero che l’IVA è tra le imposte quella più “europea”, non sarebbe comunque più giusto usare la Tobin tax o una carbon tax?
Si potrebbe, ma tali tasse riuscirebbero a finanziare, volendo essere ottimisti, un eurodividendo rispettivamente di 10 e 14 euro mensili.
Perché non ricorrere allora ad una imposta sul reddito delle persone fisiche più progressiva del presente?
Perché la definizione della base alla quale si applica questa imposta varia grandemente per ogni stato ed è un argomento molto sensibile a livello politico. Inoltre l’attuale imposta sul reddito è, de facto, già di per sé assai più progressiva dell’IVA.
Sommata alle aliquote nazionali, un ulteriore innalzamento del 20% per l’IVA non potrebbe risultare insostenibile?

Non è necessario che questo aumento sia sommato ad aliquote IVA invariate: la spesa sociale degli stati membri potrà essere (e dovrebbe essere)ricalibrata verso il basso e le entrate della tassa sul reddito muoversi verso l’alto come diretta implicazione della presenza pura e semplice dell’eurodividendo.

Altri potrebbero obiettare che ad ognuna delle quattro ragioni sopra descritte si potrebbe rispondere attraverso degli strumenti più complicati e sofisticati. Molti di questi argomenti saranno certamente corretti. La mia tesi è semplicemente che nessun altro meccanismo praticabile sia in grado di assolvere altrettanto bene quelle quattro funzioni, rimanendo al tempo stesso comprensibile per il cittadino comune.

Un’obiezione più importante è che, per quanto siano desiderabili gli effetti attesi, sarebbe ingiusto dare a ciascuno qualcosa senza chiedere nulla in cambio. Questa obiezione si basa su un fraintendimento: il reddito minimo non equivale ad una iniqua distribuzione a tutti dei frutti del duro lavoro di qualcuno. Si tratta piuttosto di condividere fra tutti i cittadini europei, nella forma di un modesto reddito, i benefici derivati dall’integrazione europea. Quanto abbiamo risparmiato dal non aver condotto o preparato guerre contro i nostri vicini? Quanto guadagniamo per l’aumentata concorrenza tra le nostre aziende o per l’aver permesso ai fattori della produzione di muoversi liberamente in Europa laddove sono più profittevoli? Nessuno lo sa e nessuno lo saprà, ma è certo che questi benefici sono distribuiti in maniera molto diseguale tra la popolazione europea, a seconda che si tratti di persone che possono o meno trasferirsi da un Paese ad un altro, a seconda che l’integrazione europea abbia abbassato il costo dei propri consumi o aumentato il valore delle proprie competenze e capacità. Un modesto eurodividendo è semplicemente un sistema diretto ed efficiente di garantire che parte di questi benefici raggiungano ogni europeo in modo tangibile.

Ma non è questa un’utopia? Ovviamente lo è, esattamente come la stessa Unione Europea era considerata un’utopia fino a non molto tempo fa, e come allo stesso modo rappresentava un’utopia il sistema della protezione sociale fino a quando Bismarck non iniziò a definirne i primi elementi. Bismarck non creò il sistema pensionistico in virtù del suo buon cuore; lo fece perché il popolo cominciava a mobilitarsi in ogni dove e a chiedere per il Reich da poco unificato riforme radicali. E noi? Cosa stiamo aspettando?

Traduzione di Emanuele Murra

Sull’Autore

Philippe Van Parijs è professore ordinario all’Université Catholique de Louvain (Belgio), dove anima la Chaire Hoover di etica economica e sociale. È inoltre Senior Research Fellow al Nuffield College di Oxford e fondatore della rete internazionale che promuove l’idea di reddito di base, il Basic Income Earth Network (BIEN) di cui è anche copresidente.
Strenuo difensore dell’idea di reddito di base, è autore di vari testi di filosofia politica ed etica economica tra i quali: Real Freedom for All. What (if anything) Can Justify Capitalism? (Oxford, 1995), What’s Wrong with aFree Lunch? (Boston, 2001), Just Democracy. The Rawls-MachiavelliProgramme (Colchester, 2011) e Linguistic Justice for Europe and for the World (Oxford, 2011).

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