Il nuovo studio di We are Social, realizzato con Hootsuite (2023) ci racconta un pianeta connesso, 4,66 miliardi sono gli utenti sui social. Spendiamo online lo stesso tempo che dovremmo spendere dormendo. Eppure i social sono molto controversi, soprattutto se usati come mezzo di informazione. Per la velocità con cui si muovono, i social media sono l’ambiente perfetto per l’informazione. Basta aprire un attimo facebook o twitter per sapere subito cosa sta succedendo nel mondo.
Inoltre ci permettono di condividere e commentare le informazioni dando parvenze di dinamiche partecipative quasi di cittadinanza attiva.
Si trascura però il fatto che ogni volta che commentiamo un post o mettiamo un like rilasciamo informazioni su di noi. Questi dati vengono letti ed elaborati secondo algoritmi che faranno in modo che alla successiva ricerca troveremo opinioni più simili e vicine al nostro punto di vista e argomenti che tendenzialmente ci piacciono.
Questo genera una polarizzazione delle opinioni, una mancanza di punti in comune, una carenza di visioni unitarie della realtà. Gli utenti, in questo sistema, continuano a cercare e trovare sempre gli stessi contenuti, pertanto convincono l’utente della propria idea e non favoriscono una comunicazione aperta e stimolante con gli altri.
Inoltre sui social una fake news circola tendenzialmente sei volte di più di una notizia vera. Oltre a questa dinamica descritta se ne aggiunge un’altra ancora più dannosa: i social media abbassano il quoziente intellettivo.
Non è un caso che si registra un abbassamento del QI dal 2009 in poi, ovvero proprio con l’avvento dei social. Fino al 2009 il livello medio di intelligenza della popolazione è aumentato (effetto Flynn). Ciò è stato dovuto a vari fattori, tra cui un ambiente sociale e intellettuale più stimolante, le sfide intellettuali lanciate quotidianamente dalla società (attraverso libri, giornali, inchieste ecc). I dati invece oggi ci parlano di un aumento della percentuale di persone afflitte dal cosiddetto “analfabetismo funzionale”. Le cause di questo tracollo sono molteplici, ma una emerge su tutte le altre: la comparsa dei social media.
I social rappresentano un potentissimo elemento di degradazione delle facoltà cognitive, emotive e relazionali. Secondo uno studio pubblicato su Frontiers in Psychology, solo in Europa questa categoria di persone ammonterebbe a circa 80 milioni di individui.
Ma forse le cose stanno cambiando!
In questo post vogliamo riportare alcuni parti salienti dell’Articolo di Ian Bogost giornalista di The Atlantic e ripubblicato qualche tempo fa su Internazionale.
Secondo Ian Bogost, nel suo articolo emblematico dal titolo “The Age of Social Media Is Ending It never should have begun”, i Social media negli ultimi vent’anni hanno preso il sopravvento.
Ma invece di facilitare le connessioni esistenti, in gran parte in funzione della vita offline, per esempio per organizzare una festa di compleanno, i social le hanno trasformate in mezzi di comunicazione potenziali. In un colpo solo, miliardi di persone si sono convinte di essere celebrità e opinionisti, e di poter creare nuove tendenze. (…)
In realtà, i Social “Network”, come concepiti all’inizio implicavano la creazione di connessioni, non la pubblicazione di contenuti.
LinkedIn prometteva di facilitare la ricerca di lavoro e la creazione di reti nel mondo degli affari attraverso vari livelli di connessione. Friendster lo faceva per le relazioni personali, Facebook per i compagni di università e così via. L’idea di fondo era il networking appunto: costruire o approfondire i rapporti, soprattutto con persone conosciute.
Le cose sono cambiate quando i social network sono diventati social media. Invece di creare legami, i social media hanno offerto la possibilità di pubblicare contenuti che potevano essere visti da un gran numero di persone, ben oltre le reti di contatti diretti. I social media hanno trasformato tutti in produttori e diffusori di contenuti.
I termini social network e social media sono ormai usati in modo intercambiabile, ma non dovrebbe essere così. Un social network è uno schedario in cui conservare dei contatti, un sistema passivo. Invece i social media sono attivi – anzi, iperattivi – e riversano costantemente contenuti su queste reti.
La tossicità dei social media fa dimenticare quanto questa innovazione fosse magica all’inizio. Tra il 2004 e il 2009 bastava iscriversi a Facebook e tutte le persone che si conoscevano, comprese quelle di cui si erano perse le tracce, erano lì, pronte a connettersi o a riconnettersi. I post e le foto che vedevo descrivevano l’evoluzione della vita dei miei amici, non le teorie cospirazioniste condivise dai loro amici squilibrati. (…)
Le reti sociali, un tempo strade per raggiungere possibili contatti, sono diventate autostrade di contenuti continui. (…)
La connessione non è più l’elemento centrale. Raggiungere più persone possibili in modo facile ed economico, traendone beneficio, ha attirato tutti: il giornalista che cerca di farsi una reputazione su Twitter; il ventenne che punta a trovare sponsorizzazioni su Instagram; il dissidente che promuove la sua causa su YouTube o cerca di scatenare una rivolta usando Facebook; le persone che vendono sesso, o la loro immagine; il falso guru che si fa pagare per dare consigli su LinkedIn.
I social media hanno dimostrato che tutti hanno la possibilità di raggiungere un pubblico enorme a basso costo e ad alto profitto, e questo potenziale ha dato a molte persone l’impressione di meritare un simile pubblico.
Ma c’è anche il rovescio della medaglia. Sui social media tutti credono che ogni utente sia tenuto a prestargli ascolto (…).
Le persone non sono fatte per parlarsi così tanto. Non dovrebbero avere così tanto da dire, non dovrebbero aspettarsi di ricevere un’attenzione così grande e non dovrebbero nemmeno presupporre il diritto di commentare o controbattere ogni pensiero o concetto.
Dalla richiesta di recensire ogni prodotto acquistato alla convinzione che ogni tweet o immagine di Instagram meriti un like, un commento o un follower, i social media hanno prodotto una rappresentazione della socialità umana decisamente squilibrata e sociopatica.
Qualcosa si potrebbe salvare: i social network, il cuore trascurato di queste piattaforme. Non è mai stata una cattiva idea usare i computer per connettersi agli altri di tanto in tanto, per motivi giustificati e con moderazione. Il problema è stato quello di farlo sempre, come stile di vita, aspirazione, ossessione. (…)
Non possiamo rendere buoni i social media, perché sono intrinsecamente dannosi. Tutto ciò che possiamo fare è sperare che appassiscano, e fare la nostra piccola parte nel contribuire ad abbandonarli.
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